26 Settembre 2014

Pasolini e l’utopia della redenzione

Pasolini e l’utopia della redenzione

 

Pier Paolo Pasolini non nacque regista. Sebbene il suo eclettismo lo avesse già spinto, negli Anni Cinquanta, a numerose frequentazioni con i grandi autori dell’ottava arte nel ruolo di soggettista e sceneggiatore, è soltanto all’inizio del decennio successivo che l’artista friulano trova i collaboratori giusti (i fratelli Citti e un giovane Bernardo Bertolucci) ed un produttore coraggioso (Alfredo Bini) per portare sul grande schermo, il più iconico veicolo di massa del Novecento, il suo netto messaggio di critica alla società borghese.

Er mondo è de chi c’ha li denti.

L’esordio di Pasolini con “Accattone” (1961) fu tanto ispirato quanto fonte di polemica nella risposta di critica e opinione pubblica. Le accuse di pornografia ne bloccarono inizialmente l’uscita, che venne poi concessa dopo alcune azioni di censura e con il divieto di visione ai minori di 18 anni, primo caso in Italia.

La borgata, culla degli emarginati – Sono lontani i toni ironici e corrosivi, ma comunque rassicuranti, delle commedie di Alberto Sordi, così in voga in quegli anni. Pasolini richiama molti dei temi portanti dei suoi primi due romanzi (“Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”), proponendo una visione cruda e disperata della condizione del sottoproletariato romano. Una fotografia epica e tragica di una condizione ignota, quantomeno dimenticata dalla società perbenista e pre-capitalista dell’epoca, narrata con un pesante uso del contrasto luminoso. Lo sguardo del regista è spietato e non assolutorio, beffardo è anche l’abbinamento della musica di Bach con quegli scenari di periferia. Un ripetuto pugno allo stomaco, una sfida alle istituzioni e ai benpensanti che si rivelò troppo anche per Federico Fellini, che rinunciò alla produzione del film.

Quando me metto ‘n testa ‘na cosa io, deve da esse quella! O il mondo ammazza a me, o io ammazzo a lui.”

Dietro alla sbruffonaggine sguaiata con cui si relaziona con il mondo, il protagonista Accattone è tutt’altro che sereno, gli occhi sconfitti hanno la consapevolezza di chi sa di dover lottare per la sopravvivenza e di non poter scendere a compromessi, né aggrapparsi a illusioni di salvezza per la propria condizione. Nel corso della pellicola, spinto dall’amore per una donna, l’uomo proverà anche la via del lavoro onesto, ma il tentativo durerà un giorno soltanto.

Ancora nun sei morto? Eppure m’hanno detto che il lavoro ammazza la gente!

La morte come unica salvezza – La seconda opera filmica di Pasolini, “Mamma Roma” (1962), differisce per alcuni aspetti importanti: innanzitutto la protagonista, Anna Magnani, una star internazionale vincitrice di Premio Oscar, che si trova ad interagire con il consueto gruppone di attori non professionisti trovati letteralmente per strada dal regista.

In secondo luogo, “Mamma Roma” racconta un tentativo di riscatto sociale, quello di una ex-prostituta che, complice il matrimonio del suo protettore, abbandona la strada per rifarsi una vita come una piccolo borghese, assieme all’adorato figlio Ettore, a cui ha sempre nascosto la sua professione. Se Accattone ha lo sguardo disincantato del predestinato, Mamma Roma nutre di speranza l’intero sviluppo narrativo.

“Ecchela laggiù casa nostra, cu’ a finestra lassù n’do ce batte er sole, n’do ce stanno qué mutande stese, lassù all’urtimo piano. Guarda che qua ce stamo solo n’artro po’ de giorni, vedrai in che casa te porta tu madre. Vedrai quant’è bella, proprio ‘na casa de gente perbene, de signori. Tutto ‘n quartiere de n’artro rango.”

Mamma Roma è disposta a tutto, ed è cieca rispetto alle enormi difficoltà del figlio nell’integrazione con quel mondo che lei ha dipinto meravigliosamente, ma che riserva loro soltanto delusioni.

“I signorini so’ tutti stupidi, nu i posso vede’, ‘sti fji de papà, perché c’hanno ‘n po’ de grana ‘n saccoccia se credono da esse quarcuno.”

Il castello di carte costruito dalla donna su menzogne e ricatti cade dolorosamente quando la donna è costretta a tornare a prostituirsi, ed Ettore inizia a dedicarsi al furto. E’ un ritorno alle origini, quindi. Non c’è posto nell’omologante dimensione borghese per gli emarginati delle borgate. Sarà la stessa Mamma Roma, sul finire della pellicola, ad ammettere anch’ella l’ineluttabilità del proprio destino.

“Certo la responsabilità probabilmente è mia, quel prete aveva ragione, però se io fossi nata in un mondo diverso, se mio padre fosse stato diverso, mia madre diversa, il mio ambiente diverso, probabilmente sarei stata diversa anch’io.”

Non c’è salvezza o riscatto, perlomeno nel mondo dominato dalla società borghese. Soltanto la morte ha il potere di liberare gli esclusi dalla propria disperazione, ed è il destino tragico che accomuna Accattone ed Ettore. La frase “Mo’ sto bene”, pronunciata dal primo sul punto di morte, è il simbolo della rappacificazione raggiunta, in una sorta di redenzione profana e tardiva.

La critica borghese – Quella che è a tutti gli effetti una trilogia sulle borgate romane si chiude con “La ricotta”, ultimo episodio del film “Ro.Go.Pa.G” (1963), girato a otto mani con Rossellini, Godard e Gregoretti. Sequestrata per “vilipendio alla religione di Stato”, la pellicola proponeva in realtà un’interessante commistione tra il sacro (un set cinematografico nella periferia romana dove viene girata “La Passione”) e il profano (la ricotta, appunto, intesa come la fame terrena del sottoproletariato interpretata dalla comparsa Stracci).

Aldilà del simbolismo metaforico, “La ricotta” si distingue come il più esplicito attacco di Pasolini alla borghesia italiana, in questo caso rappresentata dal produttore del film e da tutto il suo entourage. L’invettiva è affidata alle battute del grande Orson Welles, che nel film interpreta il regista, sedicente marxista, e che esprime tutta la sua disillusione in una celebre intervista.

Una Roma extra-cartolina – Estremamente legata agli scenari capitolini, la prima parte della filmografia pasoliniana esprime appieno il messaggio di una città che è un corpus unicum con i suoi protagonisti. La rappresentazione di una netta divisione sociale è confermata a livello urbanistico. Il regista predilige le borgate di Roma Est (Pigneto, Borgata Gordiani, Maranella, Casal Bertone) per rappresentare i luoghi natii dei suoi protagonisti emarginati.

Pasolini esclude del tutto Roma Ovest, che all’epoca comprendeva solo l’amata Monteverde, limitandosi ad usare il tratto iniziale di via Portuense (nei pressi di Porta Portese) per girare tutte le scene notturne delle prostitute. Non c’è traccia di Centro Storico, coerentemente all’idea manifesta di non contribuire all’esportazione della Roma da cartolina che aveva fatto la fortuna di molti altri cineasti italici nel proscenio di Hollywood.

In “Mamma Roma”, dove è presente una commistione con i quartieri borghesi, fanno capolino anche scene girate nel nuovo quartiere dell’EUR, dove il regista andrà a vivere con la madre di lì a poco.

Lo sviluppo ancor più spiccatamente simbolico de “La ricotta” si traduce in una location anonima, una generica, arida e desolata periferia romana che si alterna con le scene girate nei set di Cinecittà.

Il richiamo pittorico-religioso – Anticlericale convinto, Pasolini non nasconde però una fascinazione religiosa nella narrazione, che declina in dosi differenti lungo tutte le pellicole. Il tratto comune è dato dalla visione degli esponenti della borgata come i destinatari ultimi e prosecutori del messaggio originale cristiano, contrapposti ai farisei borghesi che si sono appropriati soltanto della forma esteriore dello stesso.

Sono numerosi, a rafforzare l’ambizioso parallelo, le citazioni dell’arte pittorica cristiana. Basti pensare alle due pose, manieristiche anche nel colore, realizzate per “La ricotta” e richiamanti le due Deposizioni di Pontormo e Rosso Fiorentino. Ancor più memorabile resta, però, l’epilogo di “Mamma Roma”, quando la morte del giovane Ettore, legato ad una tavola in carcere, rimanda alla “Deposizione del Cristo Morto” del Mantegna.

httpv://www.youtube.com/watch?v=27kcpWvNvbY

Commenti 1

  1. Il commesso di Bernard Malamud - Enrico Giammarco

    […] delle esistenze, la suddivisione in classi sociali divenne ancor più netta e profonda. Se per Pasolini un sottoproletario è condannato ad essere tale, per Malamud un ebreo di nome Bober era […]

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