10 Maggio 2017

Femme Letale, il lato oscuro delle donne

Femme Letale, il lato oscuro delle donne

Femme Letale Recensione

Lo scorso weekend sono stato ospite del Teatro Trastevere per la rappresentazione “Femme Letale”, di Natascia Bonacci, un’opera che raccoglie quattro monologhi “al femminile” per altrettante storie “dark” in cui è il gentil sesso a versare sangue. Quattro storie vere, raccontate da giovani attrici nel ruolo multiplo di narratrici e interpreti.

Apre Beatrice Picariello, che ci racconta una vicenda avvenuta agli antipodi, nelle terre lontane della Nuova Zelanda, dove l’amicizia tra due giovani donne, Paulin e Juliet, raggiunge toni ossessivi e velati di omosessualità, al punto che una possibile separazione le condurrà al delitto più efferato, il matricidio di Paulin. Una storia incredibile, trasposta per ben due volte sul grande schermo (la seconda da Peter Jackson), e che è stata la drammatica formazione di Anne Perry, una delle più popolari gialliste contemporanee, dietro il cui nome d’arte si nasconde proprio l’ormai matura ed espiata Juliet.

Sempre Anni Cinquanta, ambientazione parigina per quella che, forse è la storia più drammatica. Martina Di Fazio veste i panni di Denise, una donna incredibilmente fragile e suggestionabile, ragazza madre, che trova un marito violento con il culto distorto della filosofia superomistica. Un uomo che non la ama, la maltratta, la sevizia, le chiede infiniti pegni d’amore fino a pretendere il sacrificio più grande, la vita di sua figlia. Denise è talmente soggiogata da cedere anche a questa richiesta, e da non indietreggiare nonostante i ripetuti fallimenti nel portarla a compimento.

Il terzo atto è nelle mani di Susanna Stefanizzi, che ci porta ai tempi dell’Inquisizione e della caccia alle streghe interpretandone una di loro, dedita agli avvelenamenti su commissione. Un tuffo nel passato intriso d’esoterismo, che fa da apripista all’atto finale ambientato in una Calabria moderna e neorealista, in cui le vicende della tata Elvira sono narrate da Antonia Fama. Elvira è una donna con delle ferite, visibili e invisibili. E’ una donna che non è libera, perché la sera deve tornare in carcere, dov’è finita proprio nel tentativo di restituire la libertà a se stessa e soprattutto ai suoi figli.

Da cosa sono legate, realmente, le quattro storie di Femme Letale? E’ una domanda lecita, perché oltre all’assassinio di matrice femminile il legame appare assai debole e artefatto. L’autrice non nasconde di aver iniziato il progetto proprio dall’ultima storia, che ha un titolo (“Accettalo!”) che gioca con il doppio senso, e che ha aspetti autobiografici (la protagonista era la tata della regista) che rendono la scrittura più emozionante e convincente, aiutata anche dall’eccellente interpretazione di Antonia Fama, a suo agio indifferentemente nei (rari) momenti leggeri e durante l’esplosione più drammatica e intimista della vicenda.

Purtroppo lo stesso discorso non vale per gli altri tre atti, con storie raccolte senza un particolare criterio e che sembrano essere uscite da una puntata di Amore Criminale o da una trasmissione di Carlo Lucarelli, a cui l’impianto delle scene e delle luci sembra un po’ rifarsi. Le donne protagoniste dei primi tre capitoli non meritano alcuna empatia o la stessa compassione guadagnata da Elvira, hanno ucciso senza un valido motivo. L’assenza di un filo conduttore è stata esacerbata dalla mancanza di un’unica (ed esterna) figura narrante, che probabilmente avrebbe donato maggior fluidità agli snodi delle vicende e, nei primi tre atti, un po’ di tregua alle attrici per potersi concentrare sulle parti più interpretative del copione, che ne hanno risentito. Apprezzabile invece l’idea di scegliere un singolo oggetto di scena per ogni racconto e di lasciarlo sul palco, assieme a quattro paia di scarpe rosse che le attrici si sono tolte durante l’interpretazione, a simboleggiare come queste donne che hanno commesso violenza, non sono degne d’indossare un simbolo contro la violenza sulle donne.

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