L’evoluzione di un “bello” di successo
Nel mondo del cinema, essere di bell’aspetto è un fattore importante, se si ambisce a ruoli da protagonista. Può sembrare una banalità o un cliché superato, ma stiamo parlando di una regola non scritta della settima arte che sopravvive a tutto, anche alla “normalizzazione” del divismo. Il/La protagonista deve essere di bell’aspetto (o di aspetto interessante/attraente), gli attori secondi (ancor meglio i caratteristi) possono non esserlo.
E’ chiaro che esistono le eccezioni, e vanno trattate e dichiarate come tali. Attori e attrici non canonicamente “belli” che hanno trovato il successo grazie ad un talento smisurato e a registi che li hanno saputi valorizzare. Dalla New Hollywood in poi i nomi che si fanno sono sempre gli stessi: Hoffman, Nicholson, De Niro, Streep…
Ma sto tergiversando, e forse incartando. Il succo di questa introduzione è più semplice: nel cinema, essere di bell’aspetto aiuta la carriera. Essere “troppo” belli può invece affossartela. E’ l’altra faccia della medaglia. Nascono problemi di quantità (e qualità) di ruoli disponibili e a cui la tua faccia è adatta, se non dietro pesante azione di trucco. Le persone si fermano solo alla copertina, e tant’è, ma finiscono per farlo anche registi e produttori. Sei incasellato in una categoria tanto generica quanto banale, e devi continuamente dimostrare di non essere finito davanti alla macchina da presa solo per quel motivo. Solo perché sei bello.
Ecco, Brad Pitt è riuscito a dimostrarlo. Stiamo parlando di un personaggio con oltre tre decadi di carriera e che, più vicino ai sessanta che ai cinquanta, è ancora uno dei sex symbol più celebrati a livello mondiale. Brad Pitt è sinonimo di “attore bellissimo”, e un punto di riferimento dell’immaginario collettivo. E’ un uomo che non si è mai sottratto al gossip, celebrando chiacchierate relazioni con colleghe famose quanto lui. Tuttavia, è anche un attore con una filmografia molto varia ed interessante e con delle scelte non convenzionali.
Andiamole a vedere più nel dettaglio.
Indice
Gli Inizi
Dopo gli esordi televisivi e qualche particina, la prima esposizione rilevante cinematografica rilevante di Brad Pitt arriva nell’iconico “Thelma & Louise” (1991) di Ridley Scott. Pur trattandosi di un ruolo con un limitato screen time, Pitt lascia il segno con un personaggio non così distante dai suoi migliori episodi di carriera: un ladro playboy sexy e paraculo.
I ruoli da “Bello e Impossibile”
La prima parte di carriera, negli anni ’90, vede Pitt con numerosi ruoli ritagliati su un fascino che unisce un aspetto efebico ad una fisicità virile. E’ qui che si costruisce la legacy da attore dotato di un’avvenenza impossibile da non notare.
In “Intervista col vampiro” di Neil Jordan (1994), Pitt fa fatica a trasmettere la regalità del suo personaggio Louis, un membro dei non morti ingaggiato da Lestat (un meraviglioso Tom Cruise). Il buon Brad è molto rigido, in particolare nelle scene che coinvolgono Christian Slater, risulta troppo studiato. Ma ci sono momenti in cui brilla – in particolare durante un addio estremamente omoerotico e arrabbiato al compagno vampiro Armand (Antonio Banderas). Molto più a fuoco anche nelle scene con Claudia, la vampira-bambina interpretata da una giovanissima Kirsten Dunst.
“Vento di passioni” di Edward Zwick (1994) è il classico melodramma hollywoodiano che si ama o si odia. Un racconto di un luogo e di una famiglia di stampo patriarcale che cambiano nel tempo, come ce ne sono tanti. Pitt interpreta il figlio di mezzo, nonché eroe romantico, Tristan. Un personaggio che riesce a rendere selvaggio e immensamente magnetico. Il suo romanticismo è appena fuori portata, o con uno sguardo in lontananza che comunica silenziosamente quanto sia ossessionato il suo personaggio dalla morte di suo fratello. Questa pellicola ci ricorda che Pitt può sempre fare affidamento sul suo carisma naturale per incantare.
In “Vi presento Joe Black” di Martin Brest (1998) Pitt recita di nuovo affianco a Anthony Hopkins ma, nonostante il bel cast, si tratta di un film dove l’attore resta imbrigliato in un ruolo “vuoto” per definizione, quello della Morte. Se è giustificabile, per quel motivo, il distacco di Joe Black rispetto alle cose terrene, meno giustificabile è dovergli comunque costruire una storia d’amore. Ma se sei il Brad Pitt degli anni Novanta, è (quasi) inevitabile.
Brad “il Matto”
Nonostante gli esempi appena citati, Brad Pitt non ha comunque permesso alla sua carriera di sedimentarsi troppo su delle interpretazioni mono-direzionali. Fin da subito, accanto al cliché del protagonista romantico, egli ha saputo scegliere dei ruoli sopra le righe, non convenzionali, che hanno imposto al grande pubblico, oltre alla sua avvenenza, anche il talento.
“Seven” (1995) rappresenta la prima collaborazione con David Fincher, ed è un film intelligentemente studiato sia sul confronto generazionale tra l’esperto detective Somerset (Morgan Freeman) e l’irruenta testa calda Mills interpretata proprio da Brad Pitt, sia sulla frustrazione e sul modo in cui gli uomini siano alimentati da emozioni malsane – in questo caso, la sua rabbia.
L’Esercito delle 12 scimmie (1995) è un’opera apocalittica firmata dal genio di Terry Gilliam. Pitt vi recita nel ruolo di Jeffrey Goines, un logorroico detenuto del carcere psichiatrico dove viene rinchiuso James Cole (Bruce Willis). Goines sembra sempre tenere tutti a distanza, con la sua gestualità. Più che una persona, assomiglia a un insieme di stranezze. Pitt rischia l’overacting, ma si guadagna un Golden Globe e la nomination all’Oscar come attore non protagonista.
Se con i primi due Pitt raggiunge audience differenti dalle solite giovani donne innamorate, con “Fight Club” di David Fincher (1999) entra direttamente nel cult. Nella pellicola tratta dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, Pitt interpreta Tyler Durden, l’alter-ego del protagonista, una sua versione super-confidente e prepotente, l’icona problematica di un’epoca.
Gli Heist Movie e la capacità di far gruppo
Pur essendo diventato abbastanza in fretta una star di prima grandezza, Brad Pitt non ha mai avuto grandi problemi a recitare con altre star. Anzi, molti dei suoi film più noti sono di tipo corale, in cui divide la scena con altri Big del Grande Schermo, e dove spesso non è lui il protagonista.
“Sleepers” di Barry Levinson (1996) viene più che altro ricordato per un cast memorabile che comprende gente come Robert De Niro, Dustin Hoffman, Kevin Bacon e…Vittorio Gassman! E’ una specie di romanzo di formazione a tinte scure, e racconta le vite di un gruppo di amici cresciuti ad Hell’s Kitchen, incluso il loro abuso nella detenzione minorile e la loro ricerca di vendetta da adulti. Pitt fatica, non sempre con successo, per trasmettere il peso di un uomo ossessionato dal profondo trauma infantile.
Il meglio arriva quando Brad si confronta con un genere come l’heist-movie. In “Snatch” di Guy Ritchie (2000) si diverte un mondo ad interpretare l’irlandese Mickey, un campione di boxe a mani nude con un accento che viene raramente compreso.
Ancor più divertente (e divertito) è il Rusty Ryan della trilogia dedicata alla banda di Danny Ocean (Steven Soderbergh, 2002, 2004, 2007). E’ qui che Pitt inaugura la sua “terza via” alla recitazione, probabilmente quella che gli riesce meglio o che è più nelle sue corde. Dopo Brad il Romantico e Brad il Matto, ecco Brad il Figo. La coolness che trasuda il personaggio di Ryan è incomparabile: atteggiamento rilassato e completamente a suo agio nel lusso, sorriso brillante.
In “La Grande Scommessa” di Adam McKay (2015) l’interpretazione di Pitt si perde un po’, affogata negli intrecci caotici e solo in parte documentaristici della pellicola.
I film impegnati
Brad Pitt non ha mai lesinato la sua presenza in film che avessero “qualcosa da dire”. Credo che, in almeno una fase della sua carriera, abbia preso sul serio l’idea di diventare il nuovo Robert Redford, a cui spesso molti critici lo hanno paragonato.
“Sette Anni in Tibet” di Jean-Jacques Annaud (1997) gli è costato un bando a vita dalla Cina e, nonostante sia a tutti gli effetti un film pretenzioso, Pitt fallisce nel dipingere una personalità interessante come quella di Heinrich Harrer, riducendolo ad un mero avventuriero e “dimenticandosi” di tutta la sua vita interiore.
“Babel” di Alejandro Gonzalez Inarritu (2006) è una di quelle rare pellicole che, costituita da trame interconnesse, chiede a Pitt d’interpretare e trasmettere il dolore, quello di una coppia per la perdita di un figlio, tragedia che sta già minando, da tempo, il loro matrimonio.
“L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford” di Andrew Dominik (2007) è un film notoriamente sottovalutato, in cui Pitt gioca con il mito e la mitizzazione delle figure carismatiche. Un parallelo interessante, quello tra il bandito Jesse James e una star di Hollywood.
“Il curioso caso di Benjamin Button” di David Fincher (2008) è tratto dall’omonimo racconto di Francis Scott Fitzgerald. Pitt interpreta il protagonista con un tocco troppo leggero per un personaggio che dovrebbe essere pieno di profondi sentimenti. Egli conferma, dopo Babel, una chimica delicata con Cate Blanchett, ma non è abbastanza appassionato o profondo per vendere la storia d’amore chiave del film. È una buona performance in un film che funziona a singhiozzo.
“The Tree of Life” di Terrence Malik (2011) contiene, senza dubbio alcuno, una delle sue interpretazioni più elaborate, in cui dipinge un tipo di mascolinità bianca da metà Novecento: severa, concentrata e capace di gorgogliare fuori controllo con accenni di rabbia. Questo film evidenzia come la maturità artistica di Pitt si declini in un piglio sicuro, sia nel gestire il non-detto, sia nella fisicità dei suoi confronti con gli altri attori.
“L’arte di vincere” di Bennett Miller (2011) è un film che in Italia è stato distribuito in sordina, ma che in realtà ha ricevuto ben sei candidature agli Oscar. Motivo? Il film è incentrato su una squadra di baseball, gli Oakland Athletics, di cui il general manager Billy Beane è protagonista. Ovviamente, lo sport è solo un pretesto, e Pitt trova l’ennesima performance che gli consente di esplorare la mascolinità in crisi dei tempi attuali.
I film d’azione
Un attore della fisicità di Pitt non poteva comunque esimersi da una serie di performance che strizzano l’occhio all’action-movie, anche se non dei più banali.
In “Spy Game” di Tony Scott (2001) Pitt si confronta con il suo “padre putativo” Robert Redford, che lo aveva già diretto nel 1992 (“In mezzo scorre il fiume”), interpretando Tom Bishop, un personaggio della CIA guidato da Nathan Muir (Redford). Nathan sta per ritirarsi, fino a quando non viene a conoscenza della cattura e della prigionia di Bishop in Cina, facendo tutto il possibile per salvarlo. La chimica tra i due attori è evidente, il film è buono, ma non essenziale.
“Mr & Mrs Smith” di Doug Liman (2005) è il film che ha dato il via alla coppia Brangelina, molto amata dal gossip mondiale. E’ anche il film perfetto per i postumi di una sbornia. Stupido e semplice, non si prende troppo sul serio, né ha molto da offrire oltre al brivido di guardare Pitt e Angelina Jolie interpretare una coppia di sposi che sono a loro volta sicari di parti opposte. Pitt non è sempre al suo meglio quando gli viene chiesto di fare la Star del Cinema tout-court, ma qui è arrogante, sciolto e assolutamente seducente. La chimica tra lui e Jolie è elettrica. Non è certamente una delle performance più complesse di Pitt, ma che dire? A volte vuoi solo divertirti al cinema.
A proposito di divertimento, ecco “World War Z” di Marc Forster (2013). Purtroppo è il classico caso di film peggiore del romanzo da cui è tratto, quasi tutto quel che succede ti sfugge di mente nel momento in cui lascia lo schermo, inclusa la performance di Pitt.
Il Brad ironico al servizio di Quentin
Nella fase più recente della carriera, la recitazione di Brad Pitt si è cristallizzata sul mood ironico, rilassato e fuori dalle righe. I suoi personaggi sfiorano spesso il nonsense e la parodia. Ad occhio è il miglior Pitt possibile, meno ingessato di quello dei toni romantici, meno artefatto di quello che deve dimostrare sistematicamente la sua follia.
In “Burn After Reading” dei fratelli Coen (2009), Pitt offre un’esibizione sincera e ricca di segmenti da commedia slapstick, mostrando la sua capacità di adattare il suo talento fisico a scopi esilaranti. Nei momenti migliori, Pitt interpreta Chad come qualcuno che agisce come pensa che qualcuno nello spionaggio avrebbe agito – il che, ovviamente, significa stringere gli occhi e abbassare la voce. È tutto volutamente sciocco, perché Chad non sta pensando ad un bel niente, ed è bellissimo per questo.
Ma il meglio Pitt lo da lavorando con Quentin Tarantino. Forse non tutti sanno che aveva già recitato in un film sceneggiato da Tarantino, “Una vita al massimo” di Tony Scott (1993), un neo-noir dove interpretava il piccolo ruolo di Floyd.
In “Bastardi Senza Gloria” (2009) il tenente Aldo Raine è un ragazzo del Tennessee, con tanto di accento del sud, che abbatte le parole con confusione. Pitt si pappa questa parte, dando al personaggio una miscela di sicurezza e minacciosità senza mai perdere l’umorismo essenziale.
In “C’era una volta ad Hollywood” (2019, recensito qui) Pitt è una rivelazione. Interpreta il ruolo di Cliff Booth, lo stuntman e braccio destro dell’attore fallito di Leonardo DiCaprio, Rick Dalton. È un’interpretazione rilassata che rimane impressa. Quando Pitt non è sullo schermo, desideri ardentemente vederlo. Pitt sa che Cliff Booth è un uomo complicato. Il suo comportamento esternamente freddo tradisce un po’ di rabbia. Questo è il potere di una stella del cinema: esacerbare il banale in qualcosa di elegante, mitica bellezza.
I Flop
Anche Brad Pitt ha avuto delle battute d’arresto, come (più o meno) tutti. Di certo alcuni film sono andati veramente male, senza appello. Ne ho scelti tre, uno per decade.
“L’ombra del diavolo” (1997) è stato abbastanza clamoroso. D’altronde c’erano lui ed Harrison Ford, con la regia di Alan J. Pakula, non proprio degli improvvisati. Eppure i problemi di scrittura (s’iniziarono le riprese senza uno script definitivo) e di relazione tra le due star (che non hanno più lavorato insieme) hanno minato il risultato con una pellicola molto confusa in cui Pitt appare veramente poco a suo agio nel rendere un credibile accento irlandese.
“Troy” di Wolfgang Petersen (2004) è stato un disastroso tentativo di rifare il peplum in salsa americana. Va detto che la performance recitativa di Pitt è una delle poche cose che si salvano. C’è qualcosa di seducente nel modo in cui Pitt interpreta Achille, aggiungendo tocchi di umorismo arrogante mentre affronta i destini gemelli del suo futuro: fama e morte. I suoi occhi brillano in una conversazione con sua madre Thetis (Julie Christie) all’idea dell’immortalità. Ma tutto il resto affonda miseramente.
“Allied” di Robert Zemeckis (2015) appartiene anch’esso alla categoria delle ricette riuscite male pur con ottimi ingredienti singoli. Pur cercando di essere una storia d’amore travolgente della Seconda Guerra Mondiale che usa Casablanca e Londra come sfondo mentre affronta le complicazioni etiche, morali e romantiche che si presentano quando due spie sotto copertura si innamorano e iniziare una vita insieme, gli manca tutta la verve e la magia di “quei” film. Purtroppo da imputare, in parte, anche alla scarsa chimica tra Pitt e la Cotillard.
Conclusioni
Questa rassegna è stata lunga ed elaborata. L’impressione che mi sono fatto, passando in carrellata trent’anni di film di primissimo piano, è che delle tre vie alla recitazione che Pitt utilizza (romantico, squilibrato, ironico cazzone), la terza è quella che gli riesce meglio.
Brad Pitt non è De Niro, non è un attore trasformista, ed è troppo rigido e affettato in alcune interpretazioni dove DEVE trasmettere sentimento o passione. Fa molta fatica, inoltre, nei film che sono quasi interamente “sulle sue spalle”, dove deve essere la Star, il Divo, la luce che illumina da solo la pellicola.
Tuttavia, Brad Pitt ha innegabile talento, e ci ha regalato innumerevoli interpretazioni memorabili in pellicole godibili che ci hanno fatto riflettere e sorridere. Lo ritengo il perfetto “attore non protagonista” di quest’epoca.