Akira
La febbre gialla della nuova generazione
Scheda del Film
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Recensione
Nessun popolo può rivendicare una “psicosi della bomba” più schietta e comprensibile dei giapponesi, che di bombe in casa ne hanno avute due. Non è un caso che gran parte della loro produzione manga/anime sia stata influenzata dal trauma di Hiroshima/Nagasaki, in primis quella di un “figlio della bomba” come Hayao Miyazaki.
Tra le tante opere di ambientazione post-atomica che sono state sfornate nel Sol Levante, Akira è una delle più importanti e meritevoli. Il lavoro di Katsuhiro Otomo nella realizzazione del manga è stato seminale, al punto da considerarlo uno dei prodotti mediatici che più hanno segnato l’estetica distopica nucleare degli Anni Ottanta, al pari con Blade Runner o Mad Max.
La validità dell’opera è stata valorizzata da una diffusione che ha rotto molti tabù: pubblicato negli Stati Uniti in una versione colorata al computer da Steve Oliff, è stato anche il primo manga pubblicato in Italia (dalle edizioni Glenat). Il film, inevitabilmente, ha anch’esso battuto svariati record. Innanzitutto è stato realizzato da un vero e proprio comitato che ha messo insieme le più grandi case di produzioni giapponesi, inoltre è stato il primo a sforare il clamoroso budget di un miliardo di yen, schierando ben 1500 animatori e per la prima volta un uso preminente della CGI.
Il risultato di questo sforzo è sotto gli occhi di tutti: a distanza di oltre trent’anni Akira non appare invecchiato di una virgola, sia come comparto tecnico che come tematiche. Non era semplice ridurre tutti gli archi narrativi in un lungometraggio di due ore, ma Otomo ci è riuscito rendendo il protagonista una figura “fantasma”, un obiettivo asintotico per quasi tutta la pellicola.