Babylon
Scheda del Film
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Recensione
E’ abbastanza significativo che, in un periodo di crisi evolutiva per il medium, vengano prodotte numerose opere in cui si cerchi di spiegare o di far trasparire l’essenza del medium stesso. Istinto di sopravvivenza? Resta il fatto che, a differenza di The Fabelmans, Babylon non è certo un’opera a tinte autobiografiche. Damien Chazelle torna dietro la cinepresa per raccontarci un momento cruciale nella storia del cinema: il passaggio dal muto al sonoro, sul finire degli Anni Venti. Lo fa a modo suo, con una sceneggiatura che mette in campo una trama orizzontale e tre archi narrativi verticali che a loro volta s’intersecano più volte.
La trama orizzontale è lineare e a spanne persino cronologica, passando dal 1926 al 1932, raccogliendo quindi sia gli “ultimi fuochi” dell’orgiastica età del Jazz, sia la ben più morigerata era della Grande Depressione e del codice Hays. Il focus è sull’ascesa e la caduta dei tre personaggi principali: il divo del muto Jack Conrad (Brad Pitt), l’ambiziosa e ruspante star in ascesa Nellie LeRoy (Margot Robbie) e il tuttofare messicano Manuel Lopes (Diego Calva). Alle loro spalle, lo spettatore può seguire le vicende di altri tre personaggi secondari, ovvero il trombettista jazz Sidney Palmer (Jovan Adepo), la performer asiatica Lady Fay Zhu (Li Jun Li) e la giornalista di gossip Elinor St. John (Jean Smart).
Chi più, chi meno, sono tutti ispirati a personaggi realmente esistiti (la St. John è palesemente Louella Parsons), ciascuno è necessario per raccontare una parte di storia. E’ la prima volta che Chazelle ricorre ad un cast principale così allargato, e se ne serve per non tenere un focus ossessivo su un solo soggetto (a differenza di First Man, ma lì era inevitabile). Il minutaggio monstre (oltre 3 ore) diventa così sostenibile e, sebbene in alcune parti probabilmente si sarebbe potuto sforbiciare, la bravura del regista è nel non fartele individuare precisamente. Solo i più distratti potrebbero però bollare Babylon di essere un film “confusionario”. Gli obiettivi di Chazelle sono ben chiari, e se la lunga introduzione di venti minuti può essere a tutti gli effetti uno specchietto (estetico) per le allodole, le scene realmente memorabili sono altre.
Segnalo a tal proposito il dialogo tra la St John e Conrad sull’essere artisticamente “finiti” e al tempo stesso sopravvivere alla propria fine, ma soprattutto l’ossessività (già vista in Whiplash) con cui ci vengono riproposti, per intero, una decina di ciak sbagliati di Nellie alle prese con la novità del sonoro. L’abilità di Chazelle è nel mostrarci l’inadeguatezza di un’attrice abituata a recitare solo con il corpo e non con la voce, ma anche di tutto uno staff in crisi di nervi per un nuovo paradigma produttivo che non riescono a mettere in campo.
Babylon non è un film privo di difetti, e se non apprezzate l’estetica di Chazelle farete fatica a farvi piacere le immancabili scene di massa (come e più di La La Land), le saturazioni dell’obiettivo in controluce, la recitazione costantemente “sopra le righe”. Eppure questo tentativo rivoluzionario di riprodurre la classicità senza tempo non mi sembra affatto un “film sbagliato”. E’ la versione realista di Cantando sotto la pioggia che, forse, ci meritavamo.