Chinatown
Scheda del Film
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Recensione
All’inizio degli Anni Settanta il noir classico sembrava morto e sepolto, un genere figlio del suo tempo (gli anni Quaranta e Cinquanta) come tanti altri. Due film hanno cambiato questa percezione, permettendo al noir di rigenerarsi anche nelle decadi successive: Il lungo addio e Chinatown. A differenza del film di Altman, qui ci troviamo di fronte ad una sceneggiatura originale, una delle più famose ed apprezzate di sempre, a firma di Robert Towne, che riesce a scrivere una storia che affonda nelle origini della città di Los Angeles (la ricerca dell’acqua, la creazione di tante località per permetterne la distribuzione) e al tempo stesso mantiene gran parte degli stilemi del giorno.
Ma Towne è solo uno degli innumerevoli fuoriclasse che popolano i credits di questo film (senza citare il mitico produttore Robert Evans della Paramount). Che dire della regia? Roman Polanski fa una scelta forte, nel ribaltare il finale scritto da Towne (che se la prese, ma poi ammise che così era meglio). Si tratta di un’opera complessa e ricca di dettagli e, come nei film con Bogart, appare migliore quando si assapora il momento. Funziona magnificamente se si accetta l’innato senso di Polanski per il ritmo lento e la sorpresa scioccante punteggiata da momenti di violenza fisica e mentale che sono elettrizzanti.
Non si può poi tacere delle prove attoriali, non solo dei protagonisti, ma del supporting cast tutto. Faye Dunaway (vera stella massina del cinema hollywoodiano seventies), nei panni della donna in difficoltà, dà al film proprio ciò di cui ha bisogno: una presenza femminile centrale e inquietante che tocca la maggior parte degli strati incrociati della trama. E Jake Gittes, signori…Non bello, non seducente, semplicemente ficcanaso; Jack Nicholson infrange tutte le regole. Ma è vivo, è reale; uno può non riconoscerlo ma lo ricorda. Il film prende vita da lui.