He Got Game
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Recensione
In questa pellicola, Spike Lee si allontana dal tema socio-politico per affrontare una delle sue più profonde passioni personali: la pallacanestro. Non abbandona però i suoi eccessi di stile, come utilizzare ininterrottamente la colonna sonora (di Aaron Copland e Public Enemy) o diluire la sceneggiatura con storyline non necessarie (tutto l’arco che riguarda la prostituta Dakota interpretata da Milla Jovovich, un forzato arco di redenzione per Jake) e scene girate goffamente e con ingenuità, come quella di Jesus con gli zii Bubba e Sally, che sembrano costruite dal regista per mostrarci fin troppo didascalicamente i legami famigliari, ma che infine tendono a smorzare la tensione ben scritta e strutturata tra i due protagonisti. Il tema “didascalia portami via” è ricorrente nel film, tra flashback e dialoghi “spiegoni” che ne allungano il minutaggio di una mezzoretta di troppo.
Per il resto, Spike Lee è abile nel descrivere efficacemente il fenomeno della selezione degli studenti-atleti di high school e college americani, così ricco di lati oscuri e dove chiunque (amici, famigliari, agenti e insegnanti) è uno stakeholder d’interessi diretti ed indiretti. Lo stesso Jesus, pressato da più parti, dimostra di non essere privo di debolezze morali (d’altronde il nome è in onore del Black Jesus Earl Monroe, non del Salvatore). Nella scrittura dei personaggi, emergono positivamente le molteplici sfaccettature di Jake e Jesus, ma si evidenzia anche l’assenza di personaggi femminili realistici, che non siano monodimensionali: la donna in He Got Game non esce dal dualismo tra la figura angelica distaccata (la madre defunta, ma anche la sorella di Jesus) e la seduttrice sfrenata e manipolatrice che cerca il suo tornaconto (le universitarie bianche, la fidanzata Lala). E’ come se Lee volesse sottintendere che il Gioco (il “suo” Gioco) sia solo per maschi.