Indiana Jones e il quadrante del destino
Scheda del Film
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Recensione
Indiana Jones è un franchise “come li facevano una volta”, ovvero nato per un divertissement di tre soggetti principali (George Lucas, Steven Spielberg, Harrison Ford) con alcuni interventi-chiave, primo fra tutti il buon Lawrence Kasdan alla sceneggiatura.
Pur non avendo inventato nulla, saccheggiando i riferimenti dei B-movie anni ’50, il primo capitolo e i due sequel hanno di fatto definito l’estetica del film d’avventura degli Anni Ottanta, generando a loro volta un mucchio di epigoni sparpagliati tra i vari media (cinema, TV e videogame).
Nonostante il successo planetario e l’impronta indelebile sull’immaginario collettivo, questa saga non si è mai trasformata in un franchise “come li fanno ora”, con programmazione, cicli e passaggi di testimone. Certo, ci sono stati dei videogiochi (Fate of the Atlantis ha segnato il genere delle avventure grafiche, per esempio) e persino una serie TV prequel di buona fattura, ma poco altro. Semplicemente i soggetti principali di cui sopra si sono dedicati ad altri progetti e hanno lasciato il loro divertissement da parte; soprattutto nessuno ha pensato di “staccare” il personaggio di Indy dal volto del buon Harrison, i cui anni iniziavano a farsi sentire.
Cassata l’ipotesi di gestire il personaggio come James Bond/Doctor Who (ma anche Mad Max…), il piano B poteva essere quello di lasciare che l’Indy filmico rimanesse una trilogia ancorata negli Anni Ottanta. Peccato che il trio avesse altre idee per la testa, al punto da produrre un nuovo episodio (Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo) a ben 19 anni di distanza dall’ultimo. Tralasciando le reazioni (perlopiù negative) di critica e pubblico, questo quarto film sdoganò l’idea di proseguire la saga seguendo l’invecchiamento del suo protagonista.
The Dial of Destiny segue questo percorso e ci mostra un Indiana Jones settantenne alle soglie della pensione. Il tema fondante di questo quinto capitolo è il Tempo, sia perché correlato col McGuffin dell’avventura, sia perché è la riflessione principale a cui si affida il protagonista per tutta la durata del film. Nel 1969 il leggendario archeologo vive solo, i momenti di gloria sono stati dimenticati, gli studenti non pendono più dalle sue labbra e lo trattano come un relitto, la sua vita privata è andata a ramengo. Egli si sente dunque respinto dal Mondo che lo circonda, come se non fosse più la sua epoca.
Da un certo punto di vista comprendo che per molti (leggi qui) questo non sia un “film di Indiana Jones”, ancor meno del quarto capitolo. Alcuni passaggi sono piuttosto crepuscolari e drammatici per incastrarsi a dovere in una saga che ha fatto dell’azione e dell’intrattenimento il suo punto di forza. Anche il tema musicale “classico” di John Williams è assai meno presente del solito. Ma se accettiamo l’invecchiamento di Indy, come possiamo non accettare le ferite che la vita gli ha lasciato addosso? Va dato al regista James Mangold l’onore di chi ha dovuto raccogliere l’eredità “impossibile” di Spielberg e al tempo stesso lavorare su una sceneggiatura “vissuta” e passata per molte mani, con l’aggravante di dover fare un film d’avventura con una star ottantenne. Non proprio una passeggiata di salute, no?
Il regista ha scelto un approccio molto ortodosso, riempiendo gli oltre 140 minuti di autocitazioni della saga. The Dial of Destiny vanta il prologo più lungo della serie (oltre 20 minuti), un momento in cui si mettono alla prova i progressi del deaging proponendoci un Indy quarantenne alla fine della Seconda Guerra Mondiale. I risultati sono piuttosto buoni, decisamente migliori di quelli visti su De Niro per The Irishman, purtroppo la CGI non è inappuntabile per tutta la durata della pellicola.
Tornando alle citazioni, Indy 5 sembra un collage del meglio delle idee dei capitoli precedenti: c’è l’inseguimento tra i vicoli di Tangeri (I Predatori dell’Arca Perduta), c’è la scena con gli scorpioni che cadono addosso (Indiana Jones e il Tempio Maledetto), l’inseguimento sul tetto del treno (Indiana Jones e l’ultima Crociata). Che la sceneggiatura non sia a prova di bomba lo si evince per un paio di pistole di Cechov buttate lì senza conseguenze. Anche il typecasting non si distingue granché, Teddy è il nuovo Shorty, Mads Mikkelsen interpreta il nuovo classico cattivone nazista, purtroppo non all’altezza né di Renè Belloq né di Walter Donovan. L’unico personaggio completamente nuovo è la Helena Shaw di Phoebe Waller-Bridge: non è la classica spalla, in quanto spesso conduce lei l’azione, non è il classico interesse amoroso, non è una vera figlia (per fortuna, visto quello che è successo con Shia LaBeouf), è un personaggio cinico e un po’ troppo saccente che ha una sua minima evoluzione nell’arco del film ma non raccoglie alcun testimone, perché non c’è nulla da raccogliere, come l’ultima inquadratura suggerisce.