L’abbaglio
Dopo "La stranezza" un nuovo straordinario viaggio
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Recensione
Con L’Abbaglio, Roberto Andò torna a confrontarsi con la Storia, ma non con lo sguardo nostalgico o agiografico che spesso caratterizza il cinema italiano a tema risorgimentale. Al contrario, mette in scena una riflessione pungente sull’identità nazionale, centrando il tiro su un episodio cruciale ma trascurato dell’unificazione italiana per interrogare — senza didascalismi — la costruzione mitologica della patria e la responsabilità della classe borghese e intellettuale nel processo storico e civile.
Il titolo stesso, L’Abbaglio, è rivelatore: il film gioca sul doppio significato dell’errore di valutazione e dell’illusione collettiva. Al centro della narrazione c’è un momento mal compreso o volutamente frainteso del Risorgimento, riletto non come epopea patriottica, ma come occasione perduta, teatrino di ambizioni personali e cortocircuito morale. In questo contesto, la “patria” non è un ideale nobile, ma una costruzione fragile, spesso ipocrita, nella quale l’individuo si muove spaesato, spinto più dalla necessità che dalla convinzione.
Il vero colpo di genio di Andò è affidare i ruoli centrali a Ficarra e Picone, che svestono i panni da comici televisivi per indossare quelli di due personaggi emblematici dell’italianità: ingenui ma scaltri, opportunisti ma capaci di slanci sinceri, al tempo stesso ridicoli e profondamente umani. Il loro contributo è decisivo non solo in termini attoriali (sono eccellenti nel calibrare umorismo e malinconia), ma anche come chiave di lettura dell’intero film. Attraverso i loro occhi, il Risorgimento non appare come il trionfo di un’idea, bensì come una commedia degli equivoci che rischia di diventare tragedia.
Andò dirige con mano sicura e uno stile sobrio, evitando virtuosismi per privilegiare una narrazione fluida e ricca di sfumature. I toni oscillano con naturalezza tra il brillante e il drammatico, senza mai scadere nell’enfasi. La sceneggiatura — solida, dialogata con intelligenza e attraversata da un’ironia amara — è uno dei punti di forza della pellicola. Ogni personaggio, anche quelli secondari, è delineato con cura, contribuendo a costruire un affresco corale che restituisce complessità a un momento storico spesso ridotto a slogan.
Il resto del cast è all’altezza, con interpretazioni che vanno dalla compostezza elegante di attori più maturi (Toni Servillo in primis, ovviamente) alla vivacità di volti più giovani. Nessuna prova stona, segno di una direzione attoriale molto attenta e coerente con il tono generale del film. Ogni interprete sembra consapevole del senso più profondo dell’opera: un’indagine sull’identità italiana che non fa sconti, ma non rinuncia a uno sguardo empatico.