Serpico
Così lo definivano i suoi colleghi della polizia: è il più pericoloso essere vivente... quello sporco, onesto sbirro!
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Recensione
A metà strada tra il poliziesco classico e il cinema d’inchiesta, Serpico di Sidney Lumet si impone come una delle opere più emblematiche del decennio della New Hollywood. Non è soltanto un film biografico sulla figura del poliziotto italoamericano Frank Serpico, ma un’indagine profonda e radicale sull’integrità morale, sull’alienazione dell’individuo onesto in un sistema corrotto e, soprattutto, sul prezzo personale della rettitudine.
Nato da una gestazione produttiva complessa, Serpico ha rischiato di diventare tutt’altro: un film più corale, incentrato anche sulla figura di David Durk e pensato inizialmente per un binomio Newman–Redford sotto la regia di Sam Peckinpah. Ma è con l’ingresso del libro-inchiesta di Peter Maas, e soprattutto grazie alla visione produttiva di Martin Bregman e al coinvolgimento di Dino De Laurentiis, che il film prende la forma che oggi conosciamo: un’opera concentrata sull’uomo Serpico, e sul suo progressivo scontro con un sistema marcio fino alle fondamenta.
Al Pacino, qui ancora in una fase ascendente della carriera post-Il Padrino, offre una delle sue performance più intense e stratificate. Il suo Frank Serpico è un uomo solo, idealista ma anche fragile, ossessivo, incrollabile nella sua etica ma consumato da una battaglia interiore. Pacino lo interpreta con una fisicità crescente, quasi animalesca, e con una nevrosi che monta scena dopo scena, trasformando l’uomo in simbolo, e il simbolo in martire. La sua recitazione non è mai teatrale, ma sempre visceralmente radicata in un realismo che toglie il fiato.
Sidney Lumet, che più di ogni altro regista americano ha saputo raccontare la giustizia (e il suo fallimento) senza mai abbracciare il cinismo, costruisce un racconto teso, dal ritmo quasi documentaristico ma attraversato da un senso profondo di tragedia. La New York che inquadra non è quella da cartolina, ma un paesaggio urbano sporco, claustrofobico, un girone dantesco attraversato da figure opache, grigie, corrotte fino al midollo. Ogni corridoio della centrale di polizia, ogni quartiere malfamato diventa estensione visiva del conflitto interiore del protagonista.
Non c’è trionfalismo in Serpico, non c’è redenzione. C’è una crociata solitaria che si consuma lentamente, tra lo svilimento personale e l’ostracismo dei colleghi. Lumet evita ogni soluzione consolatoria e accompagna Serpico fino all’inevitabile: non solo l’alienazione, ma la trasformazione di un uomo in simbolo, fino alla quasi dissoluzione della sua individualità.
La sceneggiatura, firmata da Waldo Salt e Norman Wexler, è un piccolo miracolo di equilibrio tra realismo e introspezione. Dialoghi asciutti, mai didascalici, e una costruzione narrativa che rifiuta lo spettacolo gratuito per concentrarsi sull’evoluzione del protagonista. Le scene di confronto tra Serpico e i suoi superiori, o quelle in cui cerca (invano) supporto istituzionale, sono potenti espressioni della frustrazione civile che animava molto cinema degli anni ’70.
Fondamentale è il ruolo della città, mai semplice sfondo ma vero co-protagonista. La New York di Serpico è un organismo infetto, un sistema immune a ogni tentativo di guarigione. L’inquadratura urbana si fa simbolica, trasudando tensione e disillusione. Non a caso, quando anche la città sembra voltare le spalle all’unico uomo onesto, la tragedia si compie del tutto. La metropoli, più che essere salvata, si rivela insalvabile.
Serpico è un film che conserva ancora oggi una potenza straordinaria. Non solo per il suo valore artistico e interpretativo, ma per la sua attualità. Le domande che pone — sulla responsabilità individuale, sulla collusione tra potere e crimine, sulla possibilità di cambiare un sistema dall’interno — restano aperte, brucianti. E se il film è una denuncia, è anche una meditazione filosofica sull’onestà come malattia sociale, su quanto possa costare essere “dalla parte giusta”.