Talk Radio
L'avvenimento che ha investito l'America come un uragano
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Recensione
Con Talk Radio, Oliver Stone firma uno dei suoi film più claustrofobici e sottovalutati, ma anche uno dei più acuti, feroci e profetici. Uscito nel 1988, il film è ispirato alla storia vera del conduttore radiofonico Alan Berg, assassinato nel 1984 da un gruppo neonazista, vicenda raccontata nel libro Talked to Death di Stephen Singular. Tuttavia, il punto di partenza più diretto è la pièce teatrale omonima scritta e interpretata da Eric Bogosian, qui anche protagonista del film.
Come spesso accade con Stone, però, la materia di base viene trasformata in qualcosa di più vasto, simbolico, viscerale. Talk Radio non è semplicemente la cronaca di un’escalation di minacce; è un ritratto tagliente dell’America reaganiana, della potenza ambigua dei media, dell’alienazione urbana, del bisogno disperato di essere ascoltati — anche quando non si ha nulla da dire, o peggio, si ha solo odio da riversare.
Barry Champlain (Bogosian) è un conduttore radiofonico notturno di Dallas, caustico e brillante, che conduce un talk show provocatorio in cui attira, sfida e spesso distrugge verbalmente i suoi ascoltatori. Il film si svolge quasi interamente all’interno dello studio radiofonico, costruendo un senso di chiusura soffocante che riflette perfettamente la condizione mentale del protagonista.
La regia di Stone, seppur più trattenuta rispetto ad altri suoi lavori, è tesa e nervosa, fatta di movimenti di macchina inquieti, campi stretti, luce artificiale: tutto contribuisce a creare un’atmosfera psicologicamente asfissiante. Il mondo esterno, l’America vera e propria, entra solo attraverso le telefonate, diventando un coro di voci disturbate, violente, deliranti, disperate. In un certo senso, Barry non è altro che il catalizzatore di tutto questo disagio: lo filtra, lo esaspera, lo amplifica.
Al centro di tutto c’è la straordinaria interpretazione di Eric Bogosian, che porta sullo schermo la sua creatura teatrale con una furia controllata e magnetica. Barry è un personaggio scomodo, difficile da amare, ma impossibile da ignorare. La sua voce, le sue posture, i suoi tic, i suoi silenzi parlano di un uomo che ha fatto del microfono la sua unica identità. Bogosian riesce a trasmettere la complessità emotiva di un personaggio che è al tempo stesso vittima e carnefice, giudice e accusato, martire e narcisista.
Nonostante sia ambientato negli anni ’80, Talk Radio è incredibilmente attuale. Anticipa di decenni la tossicità del dibattito pubblico, la spettacolarizzazione dell’opinione, la deriva dell’informazione in intrattenimento, e soprattutto la polarizzazione sociale. Barry diventa una figura quasi messianica — ma non per salvare nessuno: per essere distrutto in diretta. È il primo influencer tragico, l’antesignano degli hate-show televisivi, dei commentatori urlanti, dei social prima dei social.
La società che lo circonda non vuole verità o confronto, vuole solo uno schermo su cui proiettare la propria frustrazione. E Barry, che si illude di combattere l’ignoranza, in realtà la alimenta, la sfrutta, la cavalca, fino a non distinguere più il bene dal male, la denuncia dalla complicità.
L’unico vero passo falso del film è l’inserimento del flashback che mostra l’ascesa di Barry, il suo passato, la figura del mentore e il fallimento del matrimonio. Questa sequenza, sebbene utile a delineare meglio il personaggio, interrompe brutalmente il flusso narrativo, smorza la tensione costruita con grande maestria nella parte centrale del film e spezza quel senso di tempo reale che rende l’opera così potente. In un film dominato dalla parola e dal presente, il passato appare quasi come un’intrusione didascalica, poco necessaria.