Timecop – Indagine dal futuro
Le frontiere del tempo non sono più un ostacolo...
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Recensione
Timecop, diretto da Peter Hyams e tratto da un fumetto Dark Horse, è un film che incarna appieno le contraddizioni di una Hollywood anni ’90 ancora indecisa tra blockbuster muscolari e ambizioni narrative più sofisticate. Sulla carta, l’idea funziona: un poliziotto del tempo incaricato di prevenire crimini temporali. Nella pratica, però, la pellicola fallisce nel tentativo di bilanciare le sue anime – sci-fi concettuale, action adrenalinico e dramma personale – finendo per annacquare ognuna.
Jean-Claude Van Damme, all’apice della popolarità e desideroso di emanciparsi dal cliché dell’eroe da ring, veste i panni di Max Walker, agente della TEC (Time Enforcement Commission). La sua prova attoriale è sorprendentemente contenuta rispetto agli standard abituali, ma manca di vera profondità: il personaggio sembra scritto più per facilitare le coreografie che per suggerire una reale evoluzione emotiva. Nonostante Van Damme tenti di mostrare un lato più “umano”, il film lo riporta sempre sul terreno delle gambe volanti e dei pugni acrobatici, tradendo le sue stesse ambizioni.
Il soggetto originale, firmato da Mike Richardson e Mark Verheiden, lasciava spazio a riflessioni interessanti sul libero arbitrio, l’avidità e le derive del potere in un mondo dove il passato è una risorsa manipolabile. Il film, tuttavia, si accontenta di una narrazione elementare e priva di ambiguità morali, affidando al villain interpretato da Ron Silver (senatore McComb) un’inquietante visione populista del futuro. Paradossalmente, proprio quest’ultimo è uno degli aspetti più interessanti del film oggi: i suoi discorsi sulle élite, sul potere economico, sull’autosufficienza americana hanno oggi una risonanza sinistra. A distanza di trent’anni, non sembrano più battute iperboliche ma anticipazioni inconsapevoli di una retorica sempre più diffusa.
Hyams, che in passato aveva diretto thriller come Capricorn One e Outland, cerca qui di portare un taglio cupo e realistico a un racconto che però non regge quella serietà. Le scenografie sono limitate, spesso poco ispirate, e l’uso della luce – specie nel terzo atto – penalizza fortemente la leggibilità delle scene d’azione. Il climax finale, ambientato in una casa al buio sotto la pioggia, è emblematico: non solo risulta visivamente confuso, ma manca totalmente di tensione. È un esempio lampante di come l’illuminazione e la messa in scena possano far crollare il potenziale di una sequenza drammatica.
Il problema di Timecop è che sembra incollato ai suoi anni, non solo per la resa estetica o per gli effetti speciali oggi datati, ma per la sua scrittura ingenua, in cui i paradossi temporali vengono risolti con un semplice effetto speciale o una battuta risolutiva. In un’epoca dove il pubblico ha familiarità con i viaggi nel tempo grazie a opere molto più strutturate (da Dark a Looper, fino ai blockbuster Marvel), la sceneggiatura appare rudimentale, se non addirittura dilettantesca.