Tombstone
La giustizia sta arrivando
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Recensione
“Tombstone” è uno di quei film che riescono, quasi per caso, a coniugare intrattenimento puro e spunti critici inaspettati. Uscito nel 1993, nel pieno del periodo di riflusso del western classico, il film diretto da George P. Cosmatos si inserisce in un solco revisionista senza ostentarlo, confezionando una pellicola visivamente accattivante, narrativamente accessibile, ma sorprendentemente ambigua dal punto di vista morale.
La storia ripercorre uno dei momenti più mitizzati della frontiera americana: l’arrivo dei fratelli Earp – Wyatt (Kurt Russell), Virgil (Sam Elliott) e Morgan (Bill Paxton) – nella città di Tombstone, Arizona, e il conseguente scontro con la gang dei Cowboys, che culminerà nel celebre duello all’OK Corral. La figura di Doc Holliday (Val Kilmer), ex dentista diventato pistolero tubercolotico, completa questo quartetto protagonista, incastonato in un’America dove la giustizia si fa ancora con la pistola in pugno.
Il film prende spunto da biografie reali e testimonianze d’epoca, ma si prende anche delle libertà evidenti, costruendo un racconto che mescola fatti storici, mitologia e cinema d’azione anni Novanta.
Uno dei pregi principali di Tombstone è la sua capacità di bilanciare spettacolo e ironia. A differenza di altri western contemporanei più seriosi (Unforgiven di Eastwood, uscito appena un anno prima), Tombstone non pretende di essere una dissertazione filosofica sulla frontiera, ma nemmeno si accontenta di essere solo un giocattolo nostalgico.
La regia di Cosmatos è dinamica, con un uso del montaggio e dei ralenti che strizza l’occhio al cinema action del periodo, ma non manca di gusto visivo: la fotografia di William A. Fraker esalta i tramonti polverosi, le strade fangose e i contrasti tra il saloon dorato e la miseria delle periferie.
Forse l’aspetto più sorprendente del film è il modo in cui ritrae Wyatt Earp. Lontano dall’iconografia puritana e monolitica che lo ha spesso accompagnato nel cinema classico, qui Earp è un uomo ambiguo, stanco, motivato da un desiderio di quiete che sfocia facilmente in opportunismo. Non cerca giustizia, almeno non all’inizio: cerca guadagno e tranquillità. La sua trasformazione in “giustiziere” non avviene per ideali, ma come reazione emotiva a una serie di tragedie personali.
Questa rappresentazione, senza essere apertamente sovversiva, suggerisce una lettura più critica della figura del lawman americano, riconoscendo la violenza e il disincanto come componenti fondanti del suo operato.
Se Tombstone viene ancora ricordato con affetto, buona parte del merito va alla performance di Val Kilmer nei panni di Doc Holliday. Emaciato, cinico, sofisticato, spesso ubriaco e sempre pronto alla battuta tagliente, Holliday è il personaggio più teatrale e forse anche il più tragico del film.
Kilmer ne fa una figura che oscilla tra la caricatura e il ritratto da tragedia greca: un uomo consapevole della propria fine imminente, ma deciso a lasciare un segno, fosse anche solo per lealtà a un amico. La sua interpretazione, sopra le righe ma magnetica, conferisce al film un’energia instabile e affascinante, elevandolo oltre il livello del semplice racconto western.
Non mancano, però, elementi criticabili. Il film soffre di una struttura narrativa talvolta discontinua: l’introduzione dei personaggi è fulminea, ma la parte centrale si perde in sottotrame amorose poco convincenti (il rapporto tra Earp e Josephine Marcus è forse l’anello debole della sceneggiatura). Inoltre, alcuni personaggi secondari vengono sacrificati sull’altare del ritmo, ridotti a comparse o macchiette (un problema frequente nei film corali di questo tipo).
La colonna sonora, firmata da Bruce Broughton, è solida ma non memorabile, e contribuisce a quel tono oscillante tra il grandioso e il kitsch che caratterizza l’intera operazione.