
Si può essere palesemente derivativi senza essere, per questo, banali? Il romanzo di cui vi scrivo oggi è un’ottima argomentazione a favore di quella che può sembrare come un’incongruenza.
Pierre Javelin è piazzista di cosmetici alle dipendenze dell’Istituto Nazionale per la Bellezza e l’Estetica. Una vita regolare, scandita dal tempo necessario a passare da una porta all’altra dei grandi palazzi in cui deve vendere la sua merce. Ama teneramente sua moglie Catherine, che sogna di comprare ai grandi magazzini quella giacca con un collo che non ha eguali. Un giorno arriva un aumento, non richiesto e concesso in modo quasi minaccioso. Pierre Javelin sbaglia la firma in calce ai documenti necessari, e di colpo tutto comincia a sgretolarsi…
Secondo Norman Mailer, nel 1953 questo romanzo era troppo avanti nei tempi, e per questo venne accolto tiepidamente. Da un lato è vero che la figura totalizzante delle metropoli sarebbe esplosa nei decenni successivi, dall’altro è indubbio che senza Kafka e Orwell La città senza cielo non sarebbe probabilmente esistito. Se è chiara l’ispirazione di una burocrazia machiavellica e annichilente, meno evidenti sono i riferimenti distopici. Tuttavia il dottor Babitch, sebbene sfumato dai toni surreali e tragicomici della prosa di Malaquais, non è poi dissimile a O’Brien di 1984: un burocrate indottrinato con una carriera in ascesa, che cerca di piegare la (per lui evidente) insubordinazione di Javelin.
La figura della Città è così totalizzante, il cielo è nascosto dai palazzoni, tanti portoni si susseguono davanti al cammino del protagonista, che nel corso delle vicende si aggrappa a varie salvifiche femminili per non soccombere. L’identità diviene superflua perché l’orizzonte è assente.