Tra i tanti (e notevoli) scrittori del Novecento italiano che si sono misurati nel raccontare la Resistenza, Cesare Pavese ha avuto un ruolo del tutto unico. A differenza di autori come Italo Calvino o Beppe Fenoglio, egli non fu partigiano; più grande di una quindicina d’anni, era già un insegnante, uno scrittore in carriera e un personaggio attenzionato dalla dittatura fascista che lo aveva arrestato e posto al confino.
Se soltanto La Casa in Collina (1948) può fregiarsi a pieno titolo, per periodo e ambientazione, della dicitura “Romanzo della Resistenza” nella bibliografia pavesiana, l’antifascismo parzialmente militante dello scrittore piemontese ha trovato diverse declinazioni e assonanze nella sua bibliografia più matura.
Indice
Il Carcere o l’Antifascismo confinario (1939)
Pubblicato quasi dieci anno dopo la stesura, all’interno della raccolta Prima che il gallo canti, Il Carcere è forse l’opera più strettamente autobiografica di Pavese.
Nel personaggio principale di Stefano è riconoscibile il vissuto dello scrittore, condannato a tre anni di confino in Calabria, a Brancaleone, per esser stato trovato in possesso di lettere compromettenti di stampo antifascista.
Scritto in terza persona, l’opera si compone quasi interamente di riflessioni e pensieri propri dell’universo interiore di Stefano. Così come Pavese era in realtà abbastanza lontano dalla discussione politica (a maggior ragione quella clandestina), anche Stefano vive il confino come una metafora concreta del suo disagio esistenziale.
Intellettuale del Nord, viene messo a confronto con la realtà di un mondo “altro”, estraneo e dimenticato. Lo scenario dei contatti umani di Stefano è del tutto desolante: egli non riesce nemmeno a stringere rapporti con la gente del paese, del tutto distante da lui per formazione e per abitudini di vita. D’altro canto si rifiuta persino di incontrare un altro “confinato”, a riprova della sua assenza d’impegno militante.
Gli unici suoi rapporti sono con le donne, ciascuna delle quali ricalca il classico canovaccio di Pavese: c’è la donna che l’ha tradito, ovvero colei che ha “venduto” il nome di Stefano ai fascisti, nonostante egli l’avesse protetta; poi c’è Elena, la figlia del padrone di casa, figura fragile e remissiva a cui Stefano s’interessa con poco trasporto; infine c’è Concia, una ragazza selvaggia e sensuale che egli scopre di bramare come la proiezione delle inquietudini interiori.
Stefano vive con rabbia e un senso d’ingiustizia la condanna inflittagli; nonostante abbia un effettivo grado di libertà negli spostamenti, la conformazione di Brancaleone, stretto tra la campagna brulla e il mare, sostiene uno stato di “carcerazione” più simile ad una situazione esistenziale.
Il Compagno o l’Antifascismo clandestino (1947)
(Non) si diventa ciò che (non) si è
Assai teso ed intenso, dotato di una struttura narrativa più articolata suddivisa in due location ben distinte (Torino e Roma), ne Il Compagno Pavese si mette nei panni di un “ragazzo del popolo”, non certo della sua classe sociale. Pablo è un giovane senza arte né parte, che frequenta una tabaccheria e suona la chitarra con gli amici. Sarà l’amore per una donna, Linda, a spronarlo a prendere in mano la sua vita, a trovarsi un lavoro. Linda è la fidanzata del suo amico Amelio, paralizzato alle gambe da un incidente in moto, è una donna forte e con le idee chiare. Per conquistarla e non perderla Pablo le tenterà tutte, inutilmente. Linda si fidanzerà con Lubrani, un ricco impresario teatrale di mezza età.
E’ solo la prima delle esperienze formative vissute da Pablo, che successivamente si trasferisce a Roma, compie un ulteriore percorso di formazione politica, nel ragazzo si fa strada “l’istinto di classe“. Pablo sa da che parte stare, sa come farlo e cerca i compagni. Altri personaggi si affacciano nella vita di Pablo, come Carletto, Gina la vedova del Biondo (con cui si lega sentimentalmente), come Giulianella, Scarpa che ha fatto la guerra civile in Spagna, come Giuseppe e suo padre, il ragazzo cambia inseguendo, quasi in maniera inconsapevole, il fantasma di Amelio finito in prigione perché comunista.
Io pensavo a quegli altri. Pensavo alla gente che stava in prigione. Pensavo ai morti e ai moribondi della terra. Cosa sarebbe stato questo mondo se l’avessimo già vinta. Ma chi sa, forse il bello è che dura un momento e che le cose non si possono cambiare.
La Casa in Collina, o la Resistenza vista da un borghese (1948)
Con La Casa in Collina, Pavese torna a parlare di sé, ovvero disegna un protagonista (Corrado) che è a pieno titolo un suo calzante alter-ego, come lo era Stefano ne Il Carcere.
Ambientato tra Torino e le Langhe durante la Guerra, in un periodo che va a cavallo dell’armistizio (8 settembre 1943), questo romanzo presenta alcuni temi inossidabili di Pavese, tra cui il legame disarmonico tra l’intellettuale e la realtà, il rapporto complesso con il mondo rurale delle Langhe contrapposto a quello della città, il ruolo della memoria individuale.
Corrado, docente e intellettuale borghese, è infatti un esempio clamoroso di “vigliaccheria”, sia nell’ambito privato che in quello pubblico. Egli “sfugge” alla Resistenza, ai bombardamenti e anche ad un rapporto serio con Cate.
Questo non significa che egli viva con serenità queste sue prese di posizione; scritto in prima persona, il romanzo ci palesa esplicitamente i dilemmi di Corrado, che tuttavia non esterna mai le proprie idee e non si risolve mai all’azione, osservando da spettatore la barbarie della guerra, che devasta il mondo delle Langhe, strettamente legato ai ricordi infantili di Corrado.
Neanche l’arresto di Cate e degli altri amici dell’osteria provocano una reazione in Corrado, che si salva dalla retata assieme al probabile figlio Dino, finendo per rifugiarsi in un convento. Il ragazzo però decide di arruolarsi nelle fila partigiane, mentre Corrado, insicuro e incapace di affrontare l’impegno di una scelta, decide di tornare al paese natale e alla sua “casa in collina”.
Ora che ho visto cos’è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?”
Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.
La Luna e i Falò o le conseguenze della Resistenza (1949)
Anguilla, il protagonista de La Luna e i Falò, è un giovane orfano e lavoratore che è sfuggito alla Resistenza e alla Guerra. Questo perché, prima di fare sul serio con l’antifascismo, ha preferito imbarcarsi per gli Stati Uniti, dove si è rifatto una vita. Giunto ai quarant’anni, e finita la Guerra, la nostalgia di Santo Stefano Belbo e delle campagne delle Langhe lo hanno spinto a tornare, solo per trovare un mondo estremamente differente.
Il romanzo, l’ultimo scritto da Pavese prima del suicidio, è anche il capolinea della sua poetica. Suddiviso in trentadue brevi capitoletti, intervalla un episodio, un ricordo malinconico di Anguilla o una breve scena narrativa; questa struttura sottolinea sia l’importanza del ruolo della memoria (Anguilla, orfano e “sradicato”, torna nelle Langhe per ritrovarvi un’identità non trovata oltreoceano), sia la trasfigurazione del ricordo stesso in un simbolo. Il protagonista scopre però che i simboli e i ricordi personali sono stati cancellati dalla Storia e dalla guerra: ne è prova evidente il falò, che da rito ancestrale e propiziatorio per la fertilità dei campi diventa strumento di morte e distruzione, sia nel caso della follia di Valino sia in quello dell’esecuzione dell’amata Santina.
Anguilla, orfano e “sradicato”, torna nelle Langhe per ritrovarvi un’identità non trovata oltreoceano, ma il ritorno diventa un confronto inevitabile con i cambiamenti subiti dalla realtà.
Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parte del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati. la macchia di noccioli sparita, ridotta a una stoppia di meliga […] Non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire che era tutto finito […] mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.
La luna e i falò è davvero un’opera riassuntiva, che ricompone l’esperienza umana ed esistenziale di Pavese; la scissione tra intellettuale e realtà e l’attrazione per il mondo mitico ed ancestrale delle campagne si fondono in un “poema-canzoniere in prosa che diventa un pellegrinaggio nei luoghi dell’infanzia a forte caratterizzazione autobiografica.