The Bear

Sinossi: Carmen ‘Carmy’ Berzatto, una giovane chef del mondo della cucina raffinata, torna a casa a Chicago per gestire la sua paninoteca di famiglia dopo una morte straziante. Mentre Carmy combatte per trasformare il ristorante e se stesso, la sua squadra di cucina all’avanguardia si rivela alla fine come la sua famiglia prescelta.

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Recensione

Diciamo la verità? Esistono molti prodotti seriali che iniziano bene, anche molto bene, e poi vivacchiano sulla loro reputazione. Lo penso in relazione alle offerte di prestige drama che diventano beniamine della critica nelle loro prime stagioni, poi calano di qualità, eppure la folgorazione iniziale sembra impedire alle persone di ammettere che non sono più molto buone o forse non lo sono mai state in realtà così buone in primo luogo. Cerchiamo scuse per le loro mancanze, l’assenza di direzione viene scambiata per raffinatezza e continuiamo a arrancare nonostante la qualità decrescente, perché anche solo smettere di guardare in qualche modo sembrerebbe “colpa nostra”.

Quando The Bear di FX debuttò nel 2022, divenne un successo a sorpresa, ma per buone ragioni: era uno show intelligente la cui iperspecificità, incentrata su una paninoteca di Chicago a conduzione familiare, era realmente innovativa. Le performance degli attori erano stellari, in particolare quelle di Jeremy Allen White nel ruolo del cuoco prodigio Carmy Berzatto, Ebon Moss-Bachrach nel ruolo del “cugino” Richie Jerimovich e Ayo Edebiri nel ruolo del sous-chef Sydney Adamu: tutti e tre che avrebbero vinto numerosi premi per le loro performance. La prima stagione di The Bear aveva un passo e un focus molto solidi; era una serie acuta e dettagliata su un ristorante e le persone che ci lavoravano.

La seconda stagione, uscita nel 2023, non è stata buona quanto la prima, in gran parte perché quella sicurezza di scrittura sembrava cedere il passo all’autoindulgenza. Gli espedienti narrativi che sembravano roba fresca nella prima stagione (ampio uso di flashback e altre cronologie frammentate, lunghe riprese ostentate e sequenze di montaggio ancora più lunghe, episodi “verticali” lussuosamente digressivi incentrati su personaggi secondari) sono stati riciclati nella seconda e ora apparivano artificiosi e forzati. Gli spunti musicali, già esagerati nella prima stagione, sono diventati quasi soffocanti nella seconda. C’è stata l’introduzione di un interesse amoroso banalotto per Carmy, Claire (una Molly Gordon poco sfruttata), un medico incredibilmente solidale la cui vera passione sembra essere sopportare disinteressatamente il peso della disfunzione cupa di Carmy. Ma la cosa peggiore di tutte è che The Bear è diventato noioso, uno show che gira a vuoto, alimentato solo dalle sue stesse risorse e privo di quel chiaro senso dello scopo che aveva caratterizzato la prima stagione.

Dopo aver guardato anche la quarta stagione, mi sento confidente nell’affermare che The Bear è ormai una serie buona ma non eccelsa, e lo è in maniera fastidiosa. Con il progresso della narrazione e lo sviluppo dei personaggi realmente esigui (alla fine della quarta stagione, anche i più semplici aspetti narrativi rimangono sconcertantemente opachi), lo show ora esiste come una sorta di composto di manierismi e affettazioni che spera che il suo pubblico scambierà per buona televisione. C’è sempre più la stucchevole cinematografia che cerca il colpo ad effetto, spesso con riprese a mano nervose e claustrofobiche; ci sono sempre più dispositivi di narrazione non lineari, allungati a nuovi estremi estenuanti; c’è sempre più l’accumulo distraente di guest star buttate random nella mischia (nella quarta è toccato a Brie Larson: perché?).

The Bear ha ormai 38 episodi, ovvero circa 20 ore di durata, durante le quali è successo sorprendentemente poco. Un ristorante ha chiuso e ne ha aperto uno nuovo. Le persone si sono urlate addosso, poi hanno fatto pace, poi si sono urlate addosso ancora. I personaggi hanno dovuto affrontare decisioni importanti e solo in parte sono riusciti a prenderle. La morte di un fratello è stata ripetuta tramite flashback più volte. Anche la recitazione della serie, un tempo un punto di forza, ora sembra per lo più senza vita e monotona e sicuramente non è aiutata dall’evidente approccio degli sceneggiatori di sviluppare i personaggi “verticalmente” o dall’eccessiva dipendenza della serie dai primi piani come scorciatoia visiva per l’intensità emotiva. (Un’eccezione è Moss-Bachrach, che è così bravo nel ruolo del cugino Richie che a volte sembra che stia portando avanti l’intera serie, anche se interpreta un ruolo, almeno sulla carta, secondario.)

L’aspetto più lampante è il modo in cui la direzione ondivaga della serie è diventata intenzionalmente incorporata sia nel suo contenuto che nella sua forma. L’uso incessante di flashback sembra una stampella per evitare (o procrastinare) che i personaggi o la serie stessa vadano effettivamente avanti, in qualsiasi direzione. Sgocciolare dettagli del passato come briciole di pane è un espediente alla lunga noioso: riempire la origin story non dovrebbe essere confuso con lo sviluppo del personaggio. Molti di loro sono diventati sempre più definiti dalla loro incapacità di comunicare e/o prendere decisioni, tralasciando il fatto che questa non è una caratteristica particolarmente avvincente, ma offre anche convenientemente alla serie un altro modo per evitare che accada qualcosa di reale.

Il più grande peccato è che The Bear un tempo aveva il potenziale per essere una grande serie, una su quanto spesso il lato oscuro della grandezza creativa sia un egoismo monomaniacale che tratta le relazioni con le persone come ostacoli da superare o come mezzi per raggiungere un fine, danni collaterali nel perseguimento di una visione impossibilmente idealizzata. Molti degli artisti più brillanti e ambiziosi del mondo sono esseri umani piuttosto sgradevoli, in gran parte perché i tipi di personalità che consentono alle persone di raggiungere quelle vette non si prestano a ciò che la maggior parte di noi considera un comportamento educato o ben adattato. Questa sarebbe una premessa interessante e difficile, per cui varrebbe la pena di farne uno spettacolo televisivo. Ma la propensione di The Bear per il melodramma (e una serie TV è, in fondo, un melodramma) non riesce a spingersi fin lì. Invece deve dipingere il suo protagonista come una vittima di un trauma, una figura il cui tormento deriva da sua madre, dal suo defunto fratello, da un mentore particolarmente crudele, e viene a sua volta inflitto a coloro che lo circondano perché semplicemente non può farne a meno. Pertanto, anziché dire qualcosa di stimolante e indagatore sulla natura della creatività eccezionale, la serie si rifugia nella più infantile delle fantasie sull’argomento: che essere una persona sbagliata e un genio artistico abbiano una relazione causale tra loro piuttosto che correlativa.

Trailer

 

The Bear Recensione, dove vederlo in streaming
The Bear
Il Verdetto
Quello che sembrava essere la nuova frontiere del "prestige drama" si è ora incartato forse in maniera irrisolvibile, e ora "The Bear" appare ridotto soltanto ad un interessante esperimento estetico, che si è dimenticato del comparto narrativo.
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7

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Enrico Giammarco
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