The French Dispatch è l’edizione europea dell’Evening Sun di Liberty, Kansas – un resoconto settimanale dei fatti a livello di politica globale, arti (alte o popolari), moda, cucina, enologia, e storie di varia umanità da luoghi distanti. Quando il direttore muore, lo staff editoriale decide di pubblicare un’ultima edizione memoriale evidenziando le tre storie migliori pubblicate nei dieci anni di vita del magazine. Le storie sono incentrate su un artista condannato all’ergastolo per un doppio omicidio, le rivolte studentesche e un rapimento risolto da uno chef.
Avete presenti quei classici film "alla Wes Anderson", pieni di quelle inquadrature frontali, le carrellate, gli stacchi subitanei, l'alternanza tra colore e bianco e nero, quell'estetica intrisa di nostalgia per il Novecento e tutta la sua eredità culturale? Non dubito ce l'abbiate presente, perché la filmografia oramai è consolidata, e la presenza del regista texano ha travalicato i confini della sala cinematografica, finendo anche in spot pubblicitari e videoclip.
Ecco, The French Dispatch, suo decimo lungometraggio, è un classico film "alla Wes Anderson", di quelli che danno ciò che ci si aspetta. O meglio, quello che si aspettano i fan; perché i detrattori troveranno in questa pellicola la forza di tutte le loro argomentazioni circa i limiti di un autore il cui contenuto primario (forse unico) è lo stile.
Dietro la storia di questo fittizio periodico edito in una fittizia cittadina francese c'è, evidentemente, la passione del regista per il New Yorker, a cui The French Dispatch fa il verso in ogni angolazione possibile. La morte del direttore (Bill Murray) dà il via alla composizione di un un numero "memoriale" che raccoglie le tre migliori storie mai pubblicate: l'artista-omicida di Benicio Del Toro, le rivolte studentesche e uno strano rapimento.
Dal punto di vista tecnico-produttivo The French Dispatch è un gioiellino atteso: l’ossessiva cura per il décor (di Adam Stockhausen) e i costumi (disegnati dall’abituale Milena Canonero), i colori pastello (fotografati da Robert Yeoman), un’eclettica colonna sonora che mescola Erik Satie con Thelonious Monk (le musiche originali sono composte da Alexander Desplat, la supervisione è affidata a Randall Poster). Poi un cast sterminato e di primo livello, in cui attori del calibro di Elizabeth Moss o Owen Wilson sono ridotti quasi a comparse con un paio di pose.
Le cose zoppicano purtroppo quando si vira lo sguardo sulla sceneggiatura: lasciato solo alla scrittura dai consueti e fidi compari, il buon Wes deraglia senza alcun paracadute, libero di moltiplicare a più non posso (e spesso un po’ inutilmente) i flashback, le digressioni, le cornici narrative e gli effetti di vertiginosa mise en abyme. L'occhio di Anderson resta quello di un collezionista d'immagini che, almeno in questo caso, poco restituiscono nel quadro di un disegno o una critica sociale e storica (il maggio francese del secondo episodio). Secondo una vecchia opinione di Roberto Tallarita, la sua estetica dell’horror vacui era già tra gli esemplari più emblematici di quel mainstream hipsterism che ha confinato la contestazione giovanile nel dominio del ‘gusto’ e dello ‘stile’, l’ha fatta ritirare nelle pieghe più intime della sfera individuale, l’ha cristallizzata nella valenza formale dell’oggetto di consumo.
A distanza di qualche anno, possiamo dire che le cose non sono migliorate, anzi.
The French Dispatch
Il Verdetto
Appassionata ode al giornalismo, "The French Dispatch" piacerà soprattutto ai fan dell'estetica di Wes Anderson, più che agli amanti del cinema.