Asteroid City
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Recensione
E’ impossibile non iniziare ogni recensione di un film di Wes Anderson senza citare quanto sia divisivo per critica (soprattutto) e pubblico: gli ammiratori ne lodano la capacità di mescolare cinema, arte contemporanea, moda, design, mentre i detrattori ne denunciano la dimensione autoreferenziale, estetizzante, la cura eccessiva della messa in scena, delle inquadrature e delle geometrie visive, riducendo la sua filmografia a giochi cinematografici fini a se stessi.
Dov’è la verità? Di certo sarebbe un po’ superficiale fare di tutta l’erba un fascio, quindi non tutti i film di Wes Anderson sono uguali. Questo Asteroid City, per esempio, è una pellicola di una radicalità assoluta, con un layout assai più minimalista rispetto ai precedenti, un’America azzerata, orizzontale, desertica, un luogo imprendibile, raccontato attraverso una cornice, una scatola (una piece teatrale), visivamente a metà tra i cartoni della Warner e un film anni Cinquanta con una colorazione dell’epoca; un vuoto che è una specie di buco nero che sembra trascinare dentro sé tutti i personaggi, tutti drammaticamente malinconici.
Lo stile resta ovviamente riconoscibile: le inquadrature frontali, le carrellate, gli stacchi subitanei, l’alternanza tra colore e bianco e nero, ma si tratta di un’estetica che non è al servizio della nostalgia, bensì di un nichilismo esistenzialista che emerge come idea fondante dell’intero cinema andersoniano. La vita non ha senso per il buon Wes, e l’impossibilità dell’uomo di comprendere se stesso e il proprio destino è sublimata in un film che sembra raccontare tante premesse ma che in realtà non fa succedere assolutamente nulla.