Saltburn
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Recensione
In ogni opera d’arte c’è una parte “derivativa” e una parte “originale”. Si impara dai Maestri e ci si aggiunge il proprio tocco, la propria interpretazione. Anche nel cinema è così: è sempre più difficile realizzare uno script originale senza operare un collage di vecchi film. Non c’è comunque nulla di male, fintanto che la scrittura mantiene un intenzione programmatica e non sia una mera esibizione di referenze. Eppure noto con disappunto che anche un’autrice giovane e promettente (sì, ho fatto la battuta) come Emerald Fennell si sia prestata a quel tipo di gioco, inserendosi in un filone abbastanza affollato di pellicole in cui la lotta tra le classi sociali si esplicita in un conflitto psicosessuale, e dove le (annacquate) narrazioni romantiche vengono ibridate dai meccanismi del thriller.
Molti hanno esercitato la loro cultura cinematografica (e non solo) citando le opere d’ispirazione di Saltburn: dalle più banali (Le relazioni pericolose e il suo emulo anni ’90 Cruel Intentions) alle più letterarie (Il talento di Mr Ripley di Patricia Highsmith) fino ad arrivare a quelle più cinefile (la filmografia di Joseph Losey). La stessa regista le ha menzionate nelle molteplici interviste promozionali. Il problema è quello che (non) c’è oltre la citazione. Divertente o disturbante a seconda della sensibilità di chi guarda, il racconto ideato dalla Fennell è puro vuoto pneumatico dall’indole estetica e provocatoria. Sebbene si sorregga grazie ad una messa in scena resa suggestiva da una fotografia saturata oltre ogni limite e ad una prova attoriale a dir poco brillante e sopra le righe (su tutti il protagonista Barry Keoghan e la certezza Rosamund Pike), la sua riflessione su sesso e potere è fin troppo lineare e prevedibile nello svolgimento.