American Fiction
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Recensione
Ad un certo punto di American Fiction Wiley, il produttore cinematografico bianco, spiega allo scrittore afro-americano Monk la sua verità: “Va bene, guarda. Sei un bravo scrittore, e sei quasi arrivato. Ma i romanzi non sono film, ok? Le sfumature non mettono i culi sulle poltrone dei cinema. Abbiamo bisogno di un grande finale.” Questa chiave di lettura spiega perché l’opera prima di Cord Jefferson, pur prendendo esattamente la storia alla base di Erasure, il romanzo di Percival Everett, si allontana negli intenti dal materiale originale, al punto da avere un titolo differente.
Erasure, pubblicato nel 2001, era una satira del mondo letterario che allargava lo sguardo a come gli afro-americani venivano rappresentati dagli editori (prevalentemente bianchi); American Fiction incentra l’attenzione sulla disfunzionale famiglia di Monk (ma non sul complesso rapporto padre-figlio), sull’alquanto inutile love-story del protagonista e in generale è molto più soft rispetto alla tagliente ironia di Everett.
Non si tratta soltanto di scelte buoniste di copione (nel libro la sorella ginecologa muore uccisa da una fanatica anti-abortista), è anche la messa in scena ad apparire non troppo ispirata. Abituati negli ultimi anni alle narrazioni surreali e sperimentali di Donald Glover in Atlanta, l’opera di Jefferson sembra molto più di grana grossa, e col freno a mano tirato. Per esempio, mi sarei aspettato di vedere più occasioni dove viene rappresentata la storia del libro-parodia Fuck (Everett lo aveva inserito integralmente, in una sorta di meta-narrazione), ma ci si limita ad una sola scena.
Se dovessi individuare almeno un motivo per cui comunque American Fiction è un film sopra la media (di quelli che vanno a nomination nei premi mainstream, che spesso sono garanzia di nulla) lo troverei sicuramente nella prova attoriale del cast. Jeffrey Wright è esemplare nel tratteggiare la dualità dell’atteggiamento di Monk: l’arroganza di chi disprezza le opere black commerciali e stereotipate, l’insicurezza di chi non riesce a piazzare o vendere le sue opere e intimamente vorrebbe avere lo stesso riscontro dell’odiata Sintara Golden. Di rilievo anche la prova di Sterling K. Brown nel ruolo di Cliff, il tardo-adolescenziale fratello di Monk.