Enzo Ceccotti entra in contatto con una sostanza radioattiva. A causa di un incidente scopre di avere un forza sovraumana. Ombroso, introverso e chiuso in se stesso, Enzo accoglie il dono dei nuovi poteri come una benedizione per la sua carriera di delinquente. Tutto cambia quando incontra Alessia, convinta che lui sia l’eroe del famoso cartone animato giapponese Jeeg Robot d'acciaio.
Lo chiamavano Jeeg Robot è un film di genere, ma di che genere si tratta? Uno tutto nuovo, nato dalla stratificazione e sedimentazione dei precedenti. Ecco allora che i dogmi del genere supereroistico a stelle e strisce vengono tutti a galla nello sviluppo della trama, e maneggiati con la sapienza ortodossa del fan di lunga data. Abbiamo il protagonista disagiato che riceve dei superpoteri in maniera del tutto casuale, che all’inizio non sa cosa farne e prova a sfruttarli per guadagnarci, un’evoluzione che ricorda molto quella dello Spiderman di Stan Lee. Abbiamo poi un villain sopra le righe, un eccentrico schizoide che si nutre solo di fama e potere, e che nel corso del film finisce pure sfigurato. Qui i rimandi sono tutti per il Joker, l’acerrimo antagonista di Batman.
Ma non siamo di fronte a una mera emulazione di Hollywood. Sia all’interno del titolo (che per alcuni è stato anche fuorviante), sia nel corso delle scene, la citazione-manga è importante e decisiva. E non è un caso che tra i tanti eroi animati che hanno segnato Mainetti (nonché il sottoscritto) sia stato scelto proprio Hiroshi Shiba, colui che, “cuore e acciaio”, può diventare Jeeg. All’interno dell’universo Nagaiano è forse quello che meglio interpreta l’identificazione tra uomo e robot, proprio perché egli stesso è parte integrante e necessaria alla costituzione di Jeeg Robot. Hiroshi è stato trasformato dal padre in un cyborg a sua insaputa, e inizialmente rifiuta il ruolo di eroe che gli è stato assegnato, proprio come l’Enzo Ceccotti del film, che continua a rubare, mangiare yogurt e guardare porno come faceva prima. Il tema del sacrificio, che permea gran parte dell’animazione giapponese, diviene trainante nella seconda parte della pellicola, quella in cui il protagonista accetta di essere Hiroshi, non soltanto agli occhi di Alessia, la giovane vicina di casa che passa le sue giornate ad assistere alle battaglie in DVD tra Jeeg e la regina Himica.
Gli ingredienti tematici sono questi, e la declinazione romana fa il resto. Mainetti pesca nell’attualità (Mafia Capitale, il pericolo attentati) e lo fa aiutandosi con un immaginario cinematografico già lastricato da opere come Romanzo Criminale, Gomorra e Suburra. Lo spettatore non può essere stupito di vedere Roma raccontata in questa maniera, né dell’ambientazione di Torbellamonaca o del dialetto romanesco. La sapienza del regista è nel dosare questi accenni di realismo all’interno di un contesto votato all’intrattenimento puro, con punte d’ironia e dramma immersi nel grottesco. Il cattivone con un passato da corista a Buona Domenica che canta Un’emozione da poco al karaoke o che compie una mattanza riprendendosi con il cellulare è esemplare della ricerca stilistica di un’anormale normalità.
Sia chiaro, Lo chiamavano Jeeg Robot ha tutto per essere un caso e per restare un fulmine a ciel sereno. I cinque anni che sono stati necessari a Mainetti per produrlo sono un avvertimento per chi cerca di proporre alternative in un mercato che prevede soltanto film d’autore e commedie.
Lo chiamavano Jeeg Robot
Il Verdetto
Gabriele Mainetti realizza un film di genere supereroistico riuscendo a dosare gli accenni di realismo all’interno di un contesto votato all’intrattenimento puro, con punte d’ironia e dramma immersi nel grottesco.