Rocky
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Recensione
Hollywood è piena di storie produttive assurde, ma poche hanno l’appeal di quanto accaduto per far nascere questo film. Il motivo è presto detto: se Rocky è una storia di riscatto di un pugile italo-americano di Philadelphia, la produzione di Rocky è la storia di riscatto di un attore-sceneggiatore italo-americano di New York.
Fino al 1975 Sylvester Stallone aveva combinato poco e niente nel mondo del cinema: come attore era limitato da una semi-paresi del lato sinistro del volto, frutto di un parto complicato; come sceneggiatore aveva firmato qualche episodio televisivo e collezionava rifiuti su rifiuti per copioni piuttosto convenzionali, scopiazzature di film di genere. L’illuminazione arriva guardando un incontro di boxe dal vivo, quello che mise di fronte il leggendario campione mondiale Mohammed Alì e lo sconosciuto gregario Chuck Wepner. Con la sorpresa di tutti, Wepner resse tutte le riprese perdendo solo ai punti, e si tolse lo sfizio di mettere al tappeto Alì: lo potete vedere a questo link.
Ispirato da questa incredibile storia di sport, Stallone confezionò una sceneggiatura che immaginava un imbattuto campione del mondo, Apollo Creed, sfidare uno sconosciuto pugile di nome Rocky Balboa, in un match commemorativo da tenersi a Philadelphia durante i festeggiamenti del Bicentenario dalla nascita degli Stati Uniti. A differenza di tutti gli altri, questo copione piacque molto a Irwin Winkler e Robert Chartoff che gli fecero una generosa offerta per acquistarlo. C’era però un problema: Stallone sentiva una forte affinità con la storia del pugile di Philadelphia, lui si sentiva talmente tanto Rocky Balboa…da volerlo assolutamente interpretare.
Il braccio di ferro tra Stallone e i produttori durò abbastanza a lungo, e si risolse con un accorto solo quando entrò in gioco anche la United Artists per la produzione. La regia venne affidata ad uno specialista di film sportivi (John G. Avildsen), in generale il budget era piuttosto limitato (Winkler e la UA stavano già finanziando, e perdendo soldi da, New York, New York di Martin Scorsese): la scelta degli attori comprimari fu fatta con un occhio al portafoglio ed un altro all’immediata disponibilità di calendario, e anche per le location di Philadelphia andò così. Eppure tutto s’incastrò magnificamente, e anche uno score pagato appena 25mila dollari, quello commissionato a Bill Conti, si rivelò di una qualità e di un’iconicità con pochi eguali nella storia del cinema.
La forza di Rocky risiedeva e risiede tuttora in un script magico. Abbiamo uno Stallone ispiratissimo che viaggia in pieno territorio autoriale New Hollywood disegnando un arco narrativo struggente per due sconfitti dalla vita (Rocky e Adriana) che s’incontrano e si sostengono nelle difficoltà. Pur essendo di fatto il capostipite di un franchise e di un genere commerciale, grazie a trovate come il training montage, questo film pone una distanza fra se stesso e tutti i successori con il finale: Rocky perde l’incontro (ai punti), ma vince la sfida con se stesso.
Rocky è il perfetto punto d’incontro tra popolare e autoriale, e in questa sua natura duale resta un unicum nella carriera di tutto il suo cast tecnico e artistico. Nonostante le velleità e qualche altro buon colpo autoriale (Rambo), il percorso di Stallone declinerà irrimediabilmente verso i blockbuster e lo stesso Avildsen (premio Oscar alla miglior regia per questo film) non troverà più zampate qualitative di rilievo, pur tornando in auge negli Anni Ottanta con l’adolescenziale successo commerciale di Karate Kid.